Auschwitz, si chiama così il mio inferno

Questo esercizio di scrittura empatica è stato scritto da Letizia, un’alunna della 3B della scuola Don Pasquino Borghi di Rivalta (Reggio Emilia), nel maggio del 2007. Quell’anno andammo in visita al Campo Poliziesco e di Transito di Fossoli, dove questa storia comincia, poi al Museo del Deportato di Carpi (Modena), e poi studiammo il lager di Auschwitz, dove questa storia finisce. E dopo, scrivere diventò facile…

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…Sono arrivata qui circa un mese fa… è estate… fa caldo. Oggi è sabato, di solito festeggio con la mia famiglia, preghiamo, io di solito mi diverto di sabato… oggi no. Ci hanno detto che ce ne andremo di qui, alcuni sono già andati la settimana scorsa, altri ieri. Non so dove siano andati, non so dove andremo nemmeno noi… lo chiediamo ai tedeschi, ma ci rispondono solo di non avere paura e che staremo bene… ci dicono che rimarremo con le nostre famiglie. Ora ci mettono in fila con le nostre cose… ci dicono di aspettare. Partiamo noi con il bracciale giallo e anche quelli con il bracciale verde. Gli altri dicono che staranno ancora un po’ qui.

Ecco ora ci stanno facendo salire su un treno… ci minacciano, anche se non conosco il tedesco lo so che ci stanno minacciando. Siamo tanti… troppi… sto cercando di vedere Rebecca, la ragazza che dormiva sotto di me… avevamo fatto amicizia, anche lei aveva il bracciale del mio stesso colore… ma non la vedo, il mio sguardo confuso non vede nessuna faccia amica. Qui c’è troppo caldo, è agosto, il 7 credo. I bambini che sono qui ammassati di fianco a me piangono… vedendo le proprie madri piangere. Mia madre non piange… non ride… lei non è qui. L’ho vista allontanarsi in quel corridoio buio… ricordo che mandò un bacio a me e a mia sorella, e ci disse che sarebbe tornata presto… non è ancora tornata. Mia sorella è qui… con me… voglio che rimanga sempre qui. Si chiama Sara e il suo ottimismo è meraviglioso, ha un anno più di me, lei non piange, lei dice che andrà tutto per il meglio, che presto torneremo a casa e potremo rivedere tutti… ci potremo divertire. Ormai sono ore che viaggiamo… non ho dormito… ho appena lo spazio per tenere la matita. Qui vicino a noi c’è una famiglia italiana, non posso fare a meno di sentire quello che dicono… dicono che non torneremo… che ci uccideranno, parlano di torture, e dalla voce urlante di quella signora echeggia in tutto il vagone la parola sterminio… e se fosse vero?… ho paura, tutti hanno paura… i più forti e i più deboli, i giovani e i vecchi… siamo tutti uguali qui dentro… dal primo all’ultimo.

Ecco ci fanno scendere… musica… un’orchestra di musicisti dilaniati suona musica allegra… un sottofondo di felicità per un’atmosfera di angoscia… c’è chi piange… chi non ha la forza nemmeno di fare quello… chi guarda nel vuoto ricordando e sperando, o semplicemente rassegnandosi. Ci mettono in fila, ci sono altri ebrei come noi, e ci dividono in due gruppi. Ho dovuto nascondere il foglio e la matita. Ho tenuto sempre per mano mia sorella… non la volevo perdere… è successo quello che mai avrei voluto succedesse… a lei hanno detto di andare a destra, a me a sinistra… sono scoppiata a piangere, lei mi ha dato un pizzicotto sulla guancia come sempre e mi ha detto: “Ci vediamo alla fine di tutto questo, avremo un sacco di cose da raccontarci”.

Ho perso tutto, ho solo questo foglio e questo mozzicone di matita. Piango, non riesco a smettere… sono venuti i tedeschi poco fa e mi hanno dato uno schiaffo, ho cercato di zittirmi per qualche secondo, ma la mia disperazione e le mie lacrime non hanno freni. Ci ordinano di dormire, non capisco il tedesco ma faccio quello che fanno le altre. Al mattino ci fanno uscire, lavoriamo… lavoriamo… lavoriamo. Cerco Sara con lo sguardo, vedo centinaia di persone… ma non lei. L’ho cercata per le prime settimane, ora è più di un mese che sono qui, non ho la forza di guardarmi attorno, di parlare, sono diventata un burattino… faccio quello che mi ordinano senza dire una sillaba, senza dare segno di una sola espressione… non piango… evito di pensare… evito di ricordare… di sperare.

Non faccio più nulla… lavoro… scrivo… respiro… lavoro… scrivo… respiro… sono morta, sono un corpo vuoto… una macchina che si sta lentamente spegnendo. La mia personalità e la mia vita sono andate in cenere, assieme a tutti quei compagni che ho visto morire… si parla di docce assassine qui al campo… la parola sterminio è ormai sulla bocca di tutti noi qui ad Auschwitz, si chiama così il mio inferno. L’altro giorno stavo lavorando… e… lontano… ho visto Davide, il figlio della mia professoressa… il mio cuore vuoto ha iniziato a riempirsi di quei ricordi che avrei voluto tanto cancellare… mi sono ricordata com’era quando ero viva il giardino della scuola… le corse in bicicletta… mi ricordo di quando mia madre aveva messo in punizione me e Sara per essere stata fino a tardi al parco con Davide e suo fratello… mi ricordo i nostri sorrisi… mi sembra di vedere altre persone. Scoppio a piangere, lo chiamo. Lui mi guarda e dopo qualche secondo il suo viso si riga di lacrime. Siamo troppo lontani e una rete di filo spinato ci separa… i nostri sguardi smarriti restano uniti per attimi infiniti… ma ad un tratto ecco la guardia delle SS, mi prende per un braccio e mi trascina in una stanza umida… buia… ora ho imparato qualche parola di tedesco, e capisco senza fatica ciò che mi ordina… mi dice di chinarmi… e per venti minuti senza mai fermarsi, mi frusta… urlo… piango… sono di nuovo morta… le cicatrici sul mio corpo vuoto rimarranno per sempre… cicatrici indelebili come quelle della mia anima.

Sono tre mesi che sono morta… che sono qui nell’inferno… nel campo girano voci… si inizia a scoprire quello che accade all’interno di queste mura… forse sarà organizzata una rivolta… ma non mi interessa… nulla mi coinvolge. Oggi tutti dicono che i russi stanno avanzando… che qualcuno verrà a liberarci… che forse questa tremenda realtà cesserà di esistere… che torneremo a vivere… ma questo non è possibile… ormai io sono solo uno “stuck”, come ci chiamano loro, un pezzo di materia senza significato, senza nome, senza sentimenti e senza ricordi, che non si ricorda che cosa era prima di tutto questo… un essere segnato in eterno dalla crudeltà e dalla mancanza… dalla solitudine… che saluta e vede andare via anche questo pezzo di carta, come ha fatto con la sua felicità… con la sua famiglia… con i suoi amici… con la sua dignità… con la sua vita.

Pensate… piangete e vergognatevi per tanta crudeltà.

Con affetto…

Vostra Sara

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LETIZIA, 2007

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foto di copertina: Museo del Deportato, Carpi (Modena) 2007.

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