Da quando sono entrata qui

L’anno era il 2016. La classe era la 3A della Leonardo da Vinci di Reggio Emilia. Il modulo si chiamava “letteratura e guerra”. Leggemmo molto, studiammo tantissimo, poi i ragazzi scrissero. E Bea mi consegnò un testo. Le abbiamo chiesto di riportarlo in vita per il blog, e lei lo ha ricopiato dai quaderni che ancora conserva.

 

Da quando sono entrata qui, sono dovuta crescere.

Quando ti separano da tuo padre e dal tuo fratellino e sai che probabilmente non li rivedrai mai più, devi crescere. Le ultime parole che mio fratello mi disse furono: “Abbi cura della mamma, non è così forte come sembra”. E lì capisci che devi crescere per farcela, per prenderti cura di tua madre, la cosa più preziosa che ti sia rimasta. È difficile dover crescere in poche ore, in pochi minuti, in quegli attimi strazianti che una ragazza di tredici anni non dovrebbe neanche vivere, non sono questi i problemi di cui si dovrebbe preoccupare un’adolescente.

All’interno del campo, la Morte ci segue come un’ombra che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso.

In questi mesi trascorsi all’interno del campo, l’unica cosa bella che ho, sono i ricordi. Sto iniziando a pensare però, che la nostalgia è assolutamente inutile, perché ci fa tendere verso qualcosa che abbiamo perso per sempre.

 

Mi fa tenerezza questa ragazza, che non voglio portare con me, anche se i suoi occhi, ormai spenti, mi invocano.

Gli uomini arrivati da poco si illudono di uscire da qui, nei loro occhi vedo ancora un barlume di speranza mentre in quelli per cui il campo è ormai l’unica realtà, vengo disperatamente invocata per porre fine alle loro sofferenze.

Nel campo sono presente anche nei più piccoli dettagli, assumo le forme più disparate, ad esempio negli indifesi fili d’erba impolverati, nelle ombre e nelle loro anime, perché io mi sono già impossessata di esse, i carnefici senza nome e senza anima si occupano dei loro corpi.

La vita è sopraffatta. Tutto è privo di colore.

Gli esseri umani mi stupiscono sempre e ne sono misteriosamente affascinata: nonostante io sia tra di loro, cercano sempre di proteggere i loro figli, madri, anziani e amici, nonostante tutto il male che li circonda. E a volte quasi mi dispiace strappare vite giovani a madri innocenti. Nel corso degli anni ho visto che molti giovani credono di correre verso il nemico, annientarlo e portare a casa la vittoria, ma non è così. È verso di me che corrono. L’unica cosa che portano come ricordo sono le loro ceneri.

In molti hanno paura di me. Spesso non sono io quella che decide. Molti mi paragonano al diavolo. Io non sono un mostro. Io in questi anni il diavolo l’ho rincontrato in un uomo, Adolf Hitler.

Era seduto nel suo studio, su una poltrona di pelle, con i suoi quadri che facevano da sfondo sulla parete, quasi sembrava un personaggio nobile, di notevole importanza.

Batteva nervosamente la penna sulla scrivania nera di mogano scuro.

Ha lui il destino degli uomini più di quanto ce lo abbia io.

Ripeteva frasi in tedesco, a scatti, come un pazzo. L’unica che gridò più forte fu “Juden sind unser Unglück”, ovvero “Gli ebrei sono la nostra disgrazia”. I suoi occhi erano di una follia glaciale. Ne ho visti tanti di occhi e di tutte le sfumature umane che ho colto, non riesco a riconoscerne in lui nemmeno una. Sono rimasta troppo a lungo in questo posto che non ha nome né significato, piegata al volere di un uomo di cui sto cercando di scrutare lo sguardo.

 

Beatrice, 2016

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