Il racconto di Esther

Nell’a.s. 2009/2010 la Scuola Media “Leonardo da Vinci” di Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia) partecipò al concorso dedicato alla shoah “Lezioni di memoria per non dimenticare”, promosso da Coopsette. Il concorso prevedeva una sezione di letteratura e una di disegno, e tutti i vincitori, insieme a studenti di altre scuole della provincia, si recarono in viaggio al campo di concentramento di Mauthausen, nei pressi di Linz (Austria). La classe 3D si cimentò in entrambe le prove, e qui presentiamo uno dei testi finalisti di quella classe, poi selezionati per comporre un libricino autoprodotto, dal titolo “Sguardi nel passato”.

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Shalom, mi presento, mi chiamo Esther e sono ebrea, come ben saprete nel 1939 iniziò la seconda guerra mondiale, durante la quale io fui portata in un campo di concentramento in Germania. Ma voglio raccontarvi la storia dal principio.

Era esattamente il 12 ottobre del 1944 quando io, che avevo sette anni, e la mia famiglia cercavamo rifugio per nasconderci dai tedeschi, che secondo me ce l’avevano con noi ebrei, anche se io a quei tempi non capivo bene.

Arrivammo, dunque, in una chiesa deserta nella quale c’era solo un prete minuto, molto basso ma dall’aspetto generoso e gentile, che bisbigliando ci chiese chi eravamo e da dove venivamo, con molta diffidenza. Mio padre prese la parola e spiegò al prete il motivo della nostra fuga e del nostro arrivo in questa chiesa, devo però ammettere che questa fuga all’inizio un po’ mi piaceva perché, anche se avevo paura, l’idea di essere inseguiti da qualcuno mi dava tanto l’immagine di un gioco. Nel quale noi siamo inseguiti dai cattivi cioè i tedeschi, ed era come un nascondino.

Ero ancora fra i miei pensieri quando mi accorsi che mia mamma mi stava tirando per la mano, perché il prete ci stava accompagnando in un rifugio segreto, in cui saremmo dovuti restare durante il tempo di guerra. Ogni giorno il padre ci portava di nascosto da bere e da mangiare e devo ammettere che stavamo piuttosto bene, anche se eravamo nascosti da tutto e da tutti. Passavano i giorni e le settimane e sembrava che tutto andasse bene, quando un giorno – faceva più freddo del solito – io ebbi un brutto presentimento, ma essendo una bambina di sette anni, non mi sembrava il caso di andarlo a dire ai miei genitori, e decisi fra me e me di stare zitta e di cercare di non pensarci. Ma fu molto difficile, soprattutto quando bussarono alla porta e tutti noi fummo molto sorpresi e allo stesso tempo spaventati. Iniziai a tremare, sentivo che il mio presentimento si stava avverando, cercavo di convincermi che fosse il prete. Dopo la seconda volta che sentimmo bussare, mio padre con un nodo in gola decise di aprire la porta. Non scorderò mai il momento in cui vidi i soldati tedeschi irrompere nella nostra stanza e costringerci ad andare con loro, picchiandoci e offendendoci come se non fossimo neanche persone umane ma oggetti senza anima.

Io strinsi forte mio padre durante tutto il cammino, chiedendogli di continuo dove ci stavano portando, ma non ricevetti una risposta. Ci portarono alla stazione ferroviaria, vidi che a mia madre, guardandomi, scese una lacrima e io rimasi perplessa perché data la mia età non capivo bene a cosa stavamo andando incontro.

Aspettando l’arrivo del treno, aumentavano le persone e nella mia testa si creavano sempre più domande: perché noi? Cosa volevano? Dove ci portavano? E cercavo di darmi risposte da sola, perché sapevo che se l’avessi chiesto a uno dei miei genitori non mi avrebbero risposto.

Vedemmo arrivare un treno molto mal ridotto, un treno merci per la precisione, i soldati tedeschi ci fecero salire dentro ai vagoni in cui eravamo ammassati e in sovraccarico. Quando tutti i vagoni furono pieni, dopo il segnale di uno di questi soldati, il treno si decise a partire. Dopo qualche ora di viaggio la mia mente si contorceva, troppe domande mi si stavano ammassando in testa, decisi di provare con mia madre, mi avvicinai a lei e provai a chiederle dove stavamo andando e se era costata molto questa vacanza, lei mi fece un sorrisetto e mi disse che questa più che una vacanza era una pausa da tutto e che sarebbe stato come un gioco, ma che sarebbe potuto diventare molto pericoloso se non fossi stata sempre accanto a lei. Io annuii e le risposi con un sorriso, appena finito di parlare con mia madre mi misi a fianco a lei e iniziai a osservare l’altra gente sul vagone insieme a noi, vidi altri bambini più o meno della mia stessa età. Si fece notte e tutti sul vagone cercavano un modo per mettersi comodi e cercare di dormire. Io, che ero sempre accanto alla mia mamma come le avevo promesso, provai ad accovacciarmi e ci riuscii, mia madre sbadigliò e pian piano si addormentò, mio padre socchiuse gli occhi facendo finta di dormire ma allo stesso tempo vigilava su di me, su mia madre e su mio fratello. Appunto, mio fratello, era un po’ che non lo vedevo più, e me ne accorsi solo allora, mentre stavo facendo una sorta di appello per vedere se c’erano tutti, decisi di aspettare per vedere se fossi riuscita a trovarlo.

Quella notte non dormii. Ero stata tutto il tempo alla ricerca del mio fratellino sperduto. Però, alle prime luci del giorno, quando mia madre si svegliò e notò dalle mie occhiaie che non avevo dormito, mi prese dolcemente la testa con una mano e la mise sulla sua spalla, io cercai con tutte le forze di stare sveglia ma non ce la feci, e crollai. Ma appena prima di addormentarmi sentii un uomo lì accanto a me che iniziava a parlare di un qualcosa riguardo al dormire, ma ero troppo stanca e non avevo forze per ascoltare.

Dopo qualche ora mi svegliai, dalle fessure si intravedeva il sole, un sole malinconico per noi del vagone. Mi tornò in mente il discorso di quell’uomo che avevo sentito prima di addormentarmi e incuriosita chiesi a mia madre spiegazioni, lei mi disse che quell’uomo sosteneva che il sonno è superiore a tutto, e puoi aver visto anche le cose più atroci e ripugnanti di questo mondo, ma se hai sonno ti addormenti comunque. Io allora chiesi a mia madre che cosa centrassero le cose ripugnanti e atroci con la vacanza che stavamo facendo, lei sorrise ma non mi rispose, io a quel punto decisi di finirla con le domande. Si fece di nuovo notte ma stavolta dormii, alla mattina iniziavo ad avere un po’ di fame ma non lo feci presente a mia madre per non darle altre preoccupazioni, però le chiesi dove fosse finito il mio fratellino David. Lei mi rispose che era rimasto nella chiesa del prete e che era rimasto là perché i bambini piccoli in treno non possono viaggiare, io annuii. Dopo altre quattro ore il treno si fermò, con lo stupore di tutti. Dopo qualche minuto, dei soldati vestiti come quelli che erano venuti a prenderci nella chiesa del prete, aprirono il portellone che chiudeva il vagone dall’esterno, mia madre mi prese la mano e me la strinse a tal punto da farmi male, io la guardai e le dissi di non preoccuparsi perché era solo una vacanza e poi saremmo tornati alla chiesa a prendere David. Naturalmente, anche se avevo sette anni, avevo capito benissimo che non era una vacanza ma era la guerra, però sapevo che se avessi fatto credere a mia madre che pensavo fosse una vacanza l’avrei vista sorridere, e il suo sorriso mi dava molta speranza.

Dopo che fu scesa dal vagone un ammasso di gente, toccò a me e a mia madre, si sentivano i soldati che urlavano parole in tedesco, come abwarts, che voleva dire scendere, oppure bewegen, che significava muoversi.

Fui io che a quel punto, sentendo i soldati urlare parole che non comprendevo, iniziai ad avere paura e a stringere la mano di mia madre. Un soldato giovane guardò prima mia madre e poi me e ci ordinò di andare verso sinistra, dove in lontananza vedevamo una soldatessa, prima di avviarci verso quella donna, mia madre si girò verso mio padre, mio padre la abbracciò e intanto io vidi che a mia madre scese una lacrima dal viso, poi mio padre si chinò verso di me, mi abbracciò e all’orecchio mi disse di badare a mia madre e che mi sarei dovuta prender cura di lei, io annuii, poi lui mi salutò, io con la mano ricambiai il saluto, quella fu l’ultima volta che vidi mio padre.

Intanto ci eravamo avvicinate alla soldatessa e ci avviammo in fila verso dei campi di grano. Dopo qualche ora di cammino, arrivammo davanti ad una struttura immensa e fortificata. Solo adesso, pensandoci, capisco che da quell’inferno la fuga non sarebbe stata assolutamente facile. All’entrata c’erano un gruppo di soldati che ci presero e iniziarono a tagliare i capelli a mia madre, io cercai di protestare ma un soldato mi bastonò da dietro, e mia madre pianse ancor più di quello che non stesse già facendo, allora decisi di rassegnarmi, arrivò il mio turno e iniziarono con il tagliarmi le ciocche castane scure più lunghe, io non sapevo che fare, ero terrorizzata ma allo stesso tempo ricordavo le parole di mio padre che mi aveva detto di prendermi cura di mia madre, allora cercai di non dimostrare il mio terrore alla mia mamma. Ci portarono in baracche sporche e con brandine in legno senza materassi, la cosa mi lasciò un po’ perplessa all’inizio, ma poi non ci feci più caso, notai inoltre che nella baracca eravamo tutte donne e mia madre mi spiegò che le donne venivano separate dagli uomini. Una soldatessa entrò nella baracca e ci diede ordine di seguirla, ci portarono in una stanza e ci disse chiaramente di spogliarci completamente e di lasciare i vestiti per terra. Io e mia madre molto imbarazzate ci togliemmo i vestiti, come ci ordinarono, e poi ci mettemmo in fila assieme a tutte le altre prigioniere.

Un soldato e un dottore passavano davanti a tutti per verificare che fossimo tutti più o meno in condizioni buone, e io all’inizio pensai che fosse perché volevano curarci se stavamo male o assicurarsi che tutti stessero bene, semplicemente perché ci tenevano a noi, ma adesso, uscita da quel campo, capisco che lo facevano non perché ci volessero bene o perché tenessero alla nostra salute, ma solo ed esclusivamente per vedere se eravamo in condizioni giuste per lavorare. Quando il dottore si avvicinò a mia madre, l’ansia, la paura si fecero sentire, ma ancora di più quando fu davanti a me. Dopo avermi guardato ed esaminato bene il dottore mi disse di andare con il soldato, io guardai mia madre che alla notizia spalancò gli occhi, e cercò di dire qualcosa al dottore che però con un’occhiata molto brutta la zittì. Io andai con il soldato, che mi portò in una baracca dove c’erano altri bambini, e mi disse di rimanere lì, io feci quello che mi fu ordinato. E per qualche giorno rimasi lì pensando a cosa sarebbe successo, a dove fossero mia madre e mio padre, e se il mio fratellino stava bene. Una sera, mentre ero nel letto con altri tre bambini a fianco, vidi dalla finestra l’ombra di un uomo nell’altra baracca che dopo essere stato massacrato di botte venne impiccato, ma non fucilato, in modo che noi bambini della baracca non andassimo in panico, e per una bambina di sette anni una immagine simile non è per niente facile da dimenticare, infatti non lo feci. Ogni notte appena chiudevo gli occhi rivedevo quella scena atroce, però riuscivo comunque a dormire e per questo poi riflettei sulle parole di quell’uomo sul vagone che ci aveva portato in questo inferno.

Il giorno seguente fu un giorno molto cupo e brutto per me. Iniziò tutto normalmente, mi alzai come sempre alle cinque del mattino poi insieme al soldato che c’era di turno quel giorno tutti noi bambini andavamo nelle fabbriche e ci usavano per compiere i lavori più accurati in cui servivano delle mani piccole. Dopo le nostre solite dieci o dodici ore di lavoro, ci portavano nelle baracche e ci davano da mangiare una brodaglia, alcuni miei coetanei con allergie o intolleranze si lamentavano, ma i soldati non facevano niente, e il bambino nella maggior parte delle volte moriva. Dopo la morte, i soldati lo prendevano e lo mettevano fra l’alta montagna di carcasse ammassate fuori dalla baracca.

Prima di andare a dormire il controllore faceva uscire tutti dalle baracche, e faceva l’appello finché non risultava il numero giusto, con il gelo di quell’inverno, e noi fuori seminudi che pian piano ci si congelavano le mani e i piedi, e più di una volta mi sono sentita svenire, ma dovevo resistere. Però quella sera durante l’appello mi parve di vedere in una baracca qualcuno che si muoveva stranamente, sembrava si stesse sentendo male, mi parve di intravedere lineamenti femminili, poi mi accorsi che quella donna che stava per esser massacrata di botte era mia madre, non ce la feci a resistere e a far finta di niente. Stavolta dovetti seguire il mio istinto, anche se sapevo benissimo che sarei andata incontro a grandi problemi, ma era la mia mamma e io avevo promesso a mio padre che mi sarei presa cura di lei, e non lo stavo facendo, perciò, mentre correvo all’impazzata verso quella donna che si stava accasciando a terra, iniziai a piangere perché mi sentivo in colpa per non essere riuscita a mantenere la promessa che avevo fatto a mio padre, e perché vedevo mia madre che stava male e io mi stavo avvicinando sempre più a lei, senza sapere minimamente cosa fare con tutti quei soldati che mi stavano inseguendo con i bastoni in mano, correvo il più veloce possibile, intravidi il viso di mia madre rovinato dalle botte, con delle lacrime che le ricoprivano le guance e guardandomi arrivare si lasciò cadere a terra, io che piangevo sempre più perché man mano che avanzavo mi rendevo conto che mia madre era morta e che io probabilmente fra pochi secondi avrei fatto la stessa fine, ma la forza di andare avanti a correre me la dava il pensiero che un giorno avrei rivisto almeno il mio fratellino David, e che sarebbe stato il giorno più bello della mia vita. Non ce la facevo più fra le lacrime, il freddo e il congelamento dei miei piedi, la mia corsa non sarebbe durata ancora molto, ad un certo punto mi gettai a terra carponi, e quando dopo pochi secondi arrivarono i soldati mi bastonarono le gambe, la schiena, le braccia, ma soprattutto sentii una bastonata sulla nuca che mi fece perdere i sensi.

Dopo qualche ora mi risvegliai, ero nella brandina della mia baracca assieme ai soliti tre bambini con cui dormivo in un’unica branda, però questa volta io non riuscivo a muovere le gambe e dopo pochi secondi mi accorsi che erano rotte e che avevo una fascia alla testa, lividi alle braccia, e mi ricordai l’espressione di mia madre quando prima di morire mi guardò, e piansi, piansi tutta la notte, iniziavo a pensare che nelle condizioni in cui mi trovavo non sarei sopravvissuta a lungo. Quando il soldato che c’era di guardia si accorse che stavo piangendo, mi urlò di piantarla di frignare, a quel punto chiusi gli occhi e finsi di dormire per evitare altre botte. Durante tutta la notte pensai al fatto che mi sarei dovuta ritenere una bambina fortunata, perché avrei potuto fare la fine della mia povera mamma. Si fece mattino, e i soldati mi costrinsero a scendere dalla brandina anche se avevo entrambe le gambe rotte. E nonostante mi facessero un male tremendo, mi costrinsero ad andare nella piazza per fare l’appello, non mi reggevo in piedi, mi tenevo stretta ad altri due bambini che mi erano a fianco. Finito l’appello caddi a terra, i soldati mi sollevarono e mi gettarono nella brandina in cui poi rimasi tutta la mattinata e tutto il pomeriggio.

Passato ormai un mese, le mie gambe iniziavano a riprendersi, ma avevo sempre un enorme mal di testa, cercavo comunque di farcela, e ci riuscivo. Un giorno un soldato prese un gruppo di bambini della mia baracca e li portò a fare la doccia, lui diceva, ma non li abbiamo più visti tornare.

Un giorno abbastanza soleggiato mi alzai e sembrava che il mal di testa si fosse lievemente alleggerito, era una bella giornata, si fa per dire, perché comunque ero sempre dentro un campo di concentramento, e per quanto potessero essere belle le giornate lì dentro, quella era una situazione del tutto particolare. Tutto proseguiva regolarmente, facemmo il solito appello, poi tutti al lavoro.

Appena finite le ore di lavoro, ero stanchissima, pensai alla mia povera mamma, e a dove fossero mio padre e mio fratello, che erano la mia unica forza per andare avanti. Non sapevo però che anche mio padre era morto durante le ore pesantissime di lavoro che gli imponevano, e lo venni a sapere dopo due mesi dalla fine della guerra, da un deportato che dormiva nella baracca con mio padre. Arrivai alla mia baracca, mi sdraiai ma sentii un rumore insolito, uscii dalla baracca per vedere cosa fosse successo e vidi che dall’ingresso del campo di concentramento un carro armato con una stella americana sopra, entrava per salvarci. Scoppiai dalla gioia e mi misi ad urlare e assieme a tutti gli altri prigionieri corremmo verso il carro armato. Io non ci credevo e, pensando che fosse un sogno, mi diedi un pizzicotto, invece no, era proprio la realtà, i tedeschi avevano perso la guerra. Uscii di corsa dalla dannata entrata dell’inferno e corsi lungo i campi, andai alla stazione, e presi il primo treno per Trento. Una volta arrivata nei pressi del mio paese andai, grazie ad un contadino della zona che mi diede un passaggio, alla chiesa del prete nella quale ci eravamo rifugiati per cercare mio fratello, che ero sicura fosse sopravvissuto. Entrai di colpo nella chiesa e vidi il mio fratellino in braccio al padre che mangiava, gli corsi incontro e lo abbracciai.

Negli anni che seguirono io e mio fratello vivemmo assieme al parroco in questa chiesa, finché crescemmo, ci sposammo e andammo a vivere a Bologna, da cui ora scrivo. La guerra non è cosa da poco, e chi come me l’ha vissuta, ancora oggi si chiede come mai lui sia sopravvissuto e altre persone, magari più brave di lui, sono morte ingiustamente.

Io dico, per evitare che negli anni a seguire succedano cose simili è bene iniziare fin da ora, anche nelle piccole cose, a non essere razzisti perché non è il colore della pelle che fa l’uomo, ma la sua anima e il suo pensiero.

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GLORIA, 2010

La foto di copertina è stata scattata al Lager di Mauthausen (Austria) nel 2010

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