Il ricordo del passato

Nell’a.s. 2009/2010 la Scuola Media “Leonardo da Vinci” di Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia) partecipò al concorso dedicato alla shoah “Lezioni di memoria per non dimenticare”, promosso da Coopsette. Il concorso prevedeva una sezione di letteratura e una di disegno, e tutti i vincitori, insieme a studenti di altre scuole della provincia, si recarono in viaggio al campo di concentramento di Mauthausen, nei pressi di Linz (Austria). La classe 3D si cimentò in entrambe le prove, e qui presentiamo uno dei testi finalisti di quella classe, poi selezionati per comporre un libricino autoprodotto, dal titolo “Sguardi nel passato”.

 

Quando entrai mi accorsi subito che in quella stanza buia e cupa c’era un’aria di tristezza. Al mio ingresso il dottor Felice mi disse: “Prego, entri pure… “. Quando entrai, sulla maniglia della porta c’era il segno del sudore, quando poggiai il palmo della mano per far sì che la porta si aprisse.

Già quella cosa mi fece riflettere sul fatto che sfogarsi con una persona estranea faceva bene, ma allo sesso tempo, male, per i ricordi.

Da quando tornai da Mauthausen non avevo mai parlato con nessuno di tutto quello che mi era accaduto al LAGER. A dire il vero, sembrava strano che dovessi parlare dopo tanto tempo, e di quelle cose che in questi anni turbavano la mia mente, ad una persona che neanche conoscevo.

All’interno della stanza, appesi ai muri, c’erano molti quadri ed attestati di laurea in psicologia. Appena lo vidi, subito mi colpì molto… era un quadro che raffigurava una persona stesa in una stanza, tipo quella dove io mi trovavo in quel momento, che sudava con lo psicologo di fianco. Da lì capì il motivo per il quale la maniglia della porta era tutta bagnata di sudore.

Subito, quando il dottor Felice vide che io stavo guardando attentamente quel quadro, mi disse ironicamente: “Hai dei fazzoletti con te per asciugarti?”. Ancora non riuscivo a credere dove fossi e neanche ero sicuro di volere ricordare i fatti accaduti.

Esattamente cinque anni dopo la liberazione da Mauthausen. Dopo dieci minuti mi tranquillizzai e cominciammo a parlare.

Mi fece stendere sul lettino, proprio uno come quello della signora del quadro, anche esso un po’ sudato, e mi spiegò brevemente che prima di me c’era stata una paziente molto turbata. Sciolti un po’ i nervi, iniziò a chiedermi cosa mi fosse successo, per essere stato la bellezza di cinque anni senza parlare di questo argomento. Alla fine di queste parole, iniziarono a venirmi in mente molti ricordi, brutti. “Su, forza, lo so che è brutto ricordare cose così, ma si sfoghi vedrà che dopo si sentirà meglio… è come se si liberasse di un grosso sasso che ha dentro di lei…”. Al primo pensiero, una sola lacrima dall’occhio destro cominciò a scendere sulla faccia. “Non so dove iniziare” gli dissi io, lui ribatté: “Non si preoccupi, questo non è un gioco, abbiamo tutto il tempo che vogliamo, con calma”. “Purtroppo, il fatto è che ci sono cose che a parole non si possono spiegare” gli dissi io, lui mi rispose: “Non si preoccupi, mi dica quello che si sente di dirmi”. Feci un bel respiro e cominciai a parlare.

Era notte, stavo dormendo nella mia camera, avevo solo diciotto anni, quando il suono del campanello mi svegliò. “Chi è?” chiesi. “Aprite!”, risposero gli uomini della S.S.. In quel momento non ho capito niente, l’unica cosa che mi ricordo è che in poco tempo mi ritrovai su un treno bestiame con molte persone semi nude. Nel giro di tre quattro giorni arrivammo a Mauthausen, dove ci hanno fatto camminare con tutte le nostre valigie, senza aver mangiato né bevuto.

All’arrivo, il campo era tutto illuminato e questo faceva rabbrividire. La mia baracca era la numero 10, era incredibile pensare che dentro una piccola stanza arrivavano ad entrarci 100-150 persone. La mattina, la sveglia era alle cinque e dopo dovevamo incontrarci tutti nel piazzale dove dovevamo fare l’appello, per poi andare a lavorare. In media eravamo circa 10.000 persone e i tedeschi dovevano chiamarci uno ad uno, anche se all’appello ci mancava una sola persona i tedeschi dovevano ricominciare da capo. Ogni prigioniero aveva una stella sul braccio ed un numero che differenziava gli uni dagli altri. Dopo l’appello, ci portavano a lavorare alla cava. Per andare, dovevamo salire una scalinata soprannominata da noi la “scalinata della morte” perché i tedeschi si divertivano a prendere otto ebrei e a metterli in fila e a buttare giù quello dietro e così via… Quella scalinata, la mattina presto, sembrava interminabile, per non parlare di quando andavamo a lavorare. La sera per noi era il momento che aspettavamo con più ansia, perché finalmente si dormiva e ci risposavamo.

Dopo parecchio tempo, avvenne quello che tutti i prigionieri ancora in vita speravano, vedemmo entrare dei carri armati con sopra la stella americana. Al loro arrivo tutti i prigionieri – anche quelli senza forza – gridarono felici: siamo salvi, ed io insieme a loro! Riuscirono a salvarci tutti anche se molte persone sono morte ingozzandosi di cibo.

Piangendo e tremando, finì di raccontare tutto questo allo psicologo, che mi rispose “E’ stato molto coraggioso, credo che adesso stia un po’ meglio”.

Io, tornando a casa, abbracciai la mia mamma e ricorderò forse sempre quel giorno che quella persona estranea riuscì a farmi sfogare dopo cinque anni…

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SALVATORE, 2010

La foto di copertina è stata scattata al Lager di Mauthausen (Austria) nel 2010

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