Crazy for football

C’è una nazionale italiana di cui la maggiorparte degli italiani ignora l’esistenza: la nazionale di calcio a 5 per pazienti psichiatrici. Ce la presenta Matilde, una ex alunna della nostra scuola di pochi anni fa. Con suo fratello ha visto in questi giorni il documentario “Crazy for football” – disponibile gratuitamente su RaiPlay – che racconta questa bellissima storia di sport e di cura. Prendiamoci qualche minuto per leggere la sua lucidissima recensione, e poi riflettiamoci sopra:

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Sandro guarda dritto nella fotocamera e sorride col suo sguardo sghembo e incredibilmente fiero: “siamo tutti un po’ folli” – dice – e da dietro lo schermo, emozionati, possiamo solamente dargli ragione. E’ stato “un po’ folle’’ anche Santo Rullo, lo psichiatra romano che ha investito energie e denaro nell’ambizioso e apparentemente assurdo progetto che ha portato alla nascita della nazionale italiana di calcio a cinque per pazienti psichiatrici, fino alla vittoria del titolo mondiale nel 2018 (‘‘Dream world cup’’).

Santo Rullo, così come Enrico Zanchini (lo straordinario allenatore della squadra) e Vincenzo Cantatore (ex pugile, ora preparatore atletico di questa nazionale fuori dagli schemi), sa bene che la psichiatria non può e non deve essere fatta soltanto di farmaci e isolamento: la cura della follia risiede proprio là dove essa ha origine, nelle zone grigie della nostra società, del nostro modo di vivere e nei grovigli creati dal caso o risultato di condizioni di esistenza già di per sé penalizzanti in cui ognuno può, prima o poi, trovarsi invischiato… La psichiatria è senz’altro scienza e medicina, ma è anche cura (iatria) dell’anima (psiche), è empatia e comprensione, non allontanamento del ‘folle’ come individuo pericoloso per l’ordine sociale, ma analisi e critica di un mondo incapace di ammorbidire i propri schemi e di interrogarsi sull’assurdità dei suoi ritmi e delle sue imposizioni.

Dice Christian: “Fare gruppo mi piace. Ed è quella la mia condizione, stare in mezzo agli altri”.

Allora, semplicemente, tornare bambini: voltarsi e recuperare, dal pozzo di buio e mostri del passato, un angolo di coscienza remoto e incontaminato in cui un pallone e una porta sono tutto ciò che contano. Scavalcare i giorni di noia e vuoto, lasciarsi alle spalle l’isolamento e la segregazione e abbandonarsi, almeno per quei minuti sul campo, al gioco, al sudore, a un obiettivo da raggiungere insieme. Non più lunghe giornate – una uguale all’altra, una umiliante quanto l’altra – seduti su una panchina a fissare il nulla e attendere la prossima iniezione, la prossima pastiglia, il prossimo momento di abbandono tra le braccia di Morfeo, cullati dall’oppio artificiale rappresentato dagli psicofarmaci. Perchè se la follia è segregazione, è paura, è lontananza e diffidenza, lo sport è invece solidarietà, impegno comune, inclusione. Certo, senz’altro lo sport sa anche essere spietato, ma di una spietatezza cruda, potenzialmente onesta e dunque al tempo stesso innocente, quasi atavica: o vinci o perdi, o cogli al volo l’occasione o fallisci, o ti guadagni il posto o guardi gli altri dalla panchina. Non si accettano compromessi o vie di mezzo, ed è questo il bello: la sconfitta, l’agonismo, le diatribe e i diverbi sono parte di un gioco grande e appassionante da cui nessuno, dopo aver infilato gli scarpini chiodati, può tirarsi indietro… Nello sport i perdenti sono indispensabili quanto i vincitori e senza i ‘panchinari’ non esisterebbe alcun campionato. Una squadra è un organismo che necessita di ogni sua parte: o tutti o nessuno, funziona così.

Durante la partita Giappone-Italia ai Mondiali di Osaka (Giappone, 2016).

Dunque, non ci resta che guardare ammirati quei ragazzi e cercare di decifrare lo sguardo gentile dello psichiatra per capire dove abbia potuto trovare il coraggio di ridare loro una possibilità, di farli risvegliare dall’ingiusta sonnolenza a cui sono stati abbandonati per iniziare – ricominciare, anzi, proprio come facevano durante l’infanzia – a giocare.

Non ci resta che ripensare – senza banalizzare, denigrare o abbassare lo sguardo – la nostra società, organismo scoordinato e disarmonico che si muove scomposto e preferisce allontanare e dividere, stigmatizzare e esorcizzare, legare e recludere ciò che teme di più proprio perchè, in realtà, le è inscindibilmente legato sin dalla nascita della civiltà: ‘‘umana troppo umana’’ è la follia, la stravaganza, l’eccezione che non rispetta la regola. Paurose (e, al tempo stesso, generate dalla paura) sono le linee dritte e taglienti, le strade spianate e desolate,  gli schemi rigidi e asettici che spesso ci sono posti a modello.

La nazionale italiana durante l’esecuzione dell’inno, prima della partita Giappone-Italia. Mondiali di Osaka (Giappone, 2016).

E così, il corpo malato della società di oggi (una società forse sadica, probabilmente autolesionista e senz’altro un po’ folle) rigetta o narcotizza i suoi stessi organi credendoli estranei e marci e si rende così monca, stracca, persino aggressiva. Dimentica il welfare e si scorda che una città e un paese sono, prima di tutto, una città e un paese di persone, di esseri umani tutti diversi, ma ugualmente bisognosi l’uno dell’altro (già Aristotele distingueva l’uomo dalle altre creature in quanto ‘‘animale sociale’’), non tiene a mente che, come scriveva Erasmo, “La pazzia costruisce città, imperi, istituzioni ecclesiastiche, religioni, assemblee consultive e legislative: l’intera vita umana è solo un gioco, il semplice gioco della Follia”.

Allora, anche se i mostri continuano ad agitarsi, se tra ricordi delle corse di bambini sui campi arsi dal sole o colmi di buche fangose appaiono in controluce i fantasmi della depressione e della schizofrenia, a un maestro (maestro di vita e non soltanto di calcio) basta sorridere e affermare “non importa se sentite le voci, ciò che conta è che sentiate me!”.

MATILDE

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In copertina e nell’articolo alcuni fotogrammi del documentario di Francesco Trento e Volfango De Biasi “Crazy for football” (2016, Italia, 73′).

Matilde ha già scritto sul nostro blog per alcuni laboratori di storia: Operai inglesi e Giustizia è fatta! (il titolo è suo).

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