La follia nel mirino

Questo articolo sulla fotografia è stato scritto da Italo Calvino* più di sessanta anni fa, quando non esistevano ancora i telefoni cellulari, i selfie stick e le storie da pubblicare sui social media. Eppure la riflessione di Calvino ci sembra attualissima ancora oggi. Soprattutto durante le vacanze, ciascuno di noi fa centinaia di foto, ovunque si trovi. Calvino si chiede: perché? La sua risposta è una provocazione che ci induce a pensare, prima di fare il prossimo scatto. Cosa ne dite?

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Piazza Navona, Roma, agosto 2011.

Con la primavera centinaia di migliaia d’italiani escono la domenica con la macchina fotografica a tracolla. E si fotografano. Tornano tutti contenti come cacciatori dal carniere ricolmo, e per i giorni seguenti aspettano con dolce ansia di vedere le foto sviluppate; ansia cui alcuni aggiungono il sottile piacere manuale di svilupparle da sé. Solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibilmente possesso della giornata trascorsa, solo allora quel torrente alpino, quella mossa del bambino col secchiello, quell’allungarsi al sole delle gambe della moglie è sicuro, è irrevocabile che ci sono stati; il resto anneghi pure nell’ombra del dubbio del ricordo.

Museo del Louvre, Parigi (Francia), agosto 2015.

Profonde ragioni devono esistere se un’attività che dovrebbe essere ormai così sprovveduta di fascino e d’imprevisto come la fotografia continua ad appassionare tanta gente, anzi silenziosamente arruola sotto le sue bandiere ogni anno nuove falangi di adepti, spronati anche dai progressi delle nuove macchine, che mettono ognuno in grado – sento dire – di far fotografie meravigliose senza speciali astuzie. Ma potrebbe anche essere il contrario, essere la più difficile delle arti, e il senso del discorso che sto per fare non cambia. Sia ben chiaro che non me ne intendo, che fotografie non ne ho mai fatte da quando ho l’età della ragione, e mi guardo bene dal farne, e faccio il possibile per mettere in guardia gli amici dai pericoli di questa loro pratica.

Fontana di Trevi, Roma, agosto 2011.

Bisogna dire che spesso la passione fotografica nasce in modo naturale e quasi fisiologico come fenomeno secondario della paternità: uno dei primi bisogni dei genitori, dopo aver messo al mondo un figlio, è quello di fotografarlo; e dato il veloce ritmo di crescita dei bambini diventa necessario fotografarli spesso, perché nulla è più labile e irricordabile d’un bambino di sei mesi, presto abolito e cancellato dal bambino di otto mesi e da quello di un anno; e con tutta la perfezione che agli occhi dei genitori può aver raggiunto un figlio di tre anni nulla può impedire che subentri a distruggerla la nuova perfezione dei quattro, quindi la smania fotografica dei genitori ha un movente ben giustificato, ma già contiene in sé quel senso di follia che è inseparabile da quel nero strumento.

Life Electric (Daniel Libeskind, 2015), diga foranea, Como, agosto 2017.

Perché uno che ha cominciato a far fotografie, non c’è nessuna ragione che si fermi. Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo. Se fotografiamo Pierino mentre fa il castello di sabbia, non c’è nessuna ragione di non fotografarlo mentre piange perché il castello è crollato, e poi mentre la bambinaia lo consola facendogli trovare in mezzo alla sabbia un guscio di conchiglia. Basta cominciare a dire di qualcosa: «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siamo sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e che per fotografare quanto più si può bisogna vivere in modo quanto più fotografabile possibile.

Cosplay al festival PLAY, Modena 2011.

Ma che cosa non è fotografabile? Il gusto dell’istantanea, del documento spontaneo, colto dalla vita, ha abolito ogni confine. Già Carlo Levi ha scritto una volta contro il pregiudizio di credere l’istantanea più «vera» della fotografia in posa. Ed è certo che se il modo come la gente, come formava i gruppi fotografici, aveva sempre un significato sociale, culturale, di gusto, e se un gruppo familiare ottocentesco ispirava il senso di quanto di autoritario e gerarchico, quanto di serio e importante, e quanto di falso e forzato e ipocrita si poteva trovare in un agglomerato familiare, nello stesso modo l’attuale istantanea familiare campestre o marina dà un’idea della vita che in novanta casi su cento è sbagliata. Il nostro gusto per la spontaneità dell’istantanea ci porta a trovare tutto bello, perché colto sul vivo e naturale. La realtà vista in fotografia assume subito un carattere nostalgico, di preziosa gioia fuggita sull’ala del tempo e già prontamente storicizzata anche se si tratta di due giorni fa, già pregustiamo il piacere di quando la rivedremo – sentimentalmente se non cromaticamente ingiallita – tra vent’anni.

Museo del Louvre, Parigi (Francia), agosto 2015.

L’identico processo che si verifica in letteratura da quando la critica stilistica ci ha insegnato a vedere nei testi più gracili e provinciali e legati al costume del loro tempo dei preziosi monumenti di linguaggio e di gusto; per cui le opere brutte, basta che riusciamo a vedere con pietas storica la loro bruttezza, diventano bellissime.

Perugia, maggio 2016.

Se un fotografo si mette su questa via di recupero di tutta la realtà che gli passa sotto gli occhi, per lui l’unico modo di agire con coerenza è di andare fino in fondo: da quando apre gli occhi al mattino a quando va a dormire, scatti almeno una foto al minuto, fotografi tutto, ci dia un fedele assoluto journal della sue giornate. Fino al momento in cui non diventerà pazzo. Perché come nel tenere un diario e in genere nella letteratura autobiografica, così nella fotografia – insomma in queste cose che sembrano il colmo del rispecchiamento della realtà, della sincerità, della
razionalità chiarificatrice, – c’è sempre in agguato un tentacolo di pazzia.

Le mur des Canuts, La Croix-Rousse, Lyon (Francia), agosto 2019.

La vera ragione umana è scelta, organizzazione, invenzione. Ma al fotografo dilettante, se non persegue l’accettazione indiscriminata della realtà che proponevo, la scelta che gli s’impone sarà sempre una scelta in senso idillico, apologetico, di consolazione e pace con la natura, la nazione e i parenti. Nella fotografia e quindi anche nella vita, il fotografo dilettante è portato a escludere i contrasti drammatici, i nodi delle contraddizioni, le grandi tensioni della volontà, dell’avversione e dell’amore. Diventerà un mediocre, presto non saprà fare più niente di buono.
Invece ci interessa sempre l’opera del fotografo professionista, di colui che insegue i movimenti delle folle, il sangue sparso, il dolore e la gioia, la falsità delle cerimonie ufficiali, lo sforzo dei campioni, colui che documenta sugli estremi dellavita, sui più ricchi e sui più poveri, che sa che la realtà della storia si legge nei suoi continui momenti eccezionali, non nella sua (apparente) mediocrità quotidiana.

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* pubblicato in «Il Contemporaneo», 30 aprile 1955, ora in I. Calvino, Saggi 1945-1985, tomo II, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 2001, pp. 2217-19 (il grassetto nel testo è a cura della redazione di Ilibridileo).

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In copertina: stazione metropolitana di Les Halles, Parigi (Francia), agosto 2015. Tutte le foto dell’articolo sono di Marco.

 

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