Il bambino con il pigiama a righe

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Questa storia inizia ad Auschwitz, dove un bambino di nome Bruno si è trasferito da Berlino. Suo padre è un soldato che ha fatto carriera nelle gerarchie del partito nazista, così lo inviano a dirigere il “campo di lavoro” ad Auschwitz appunto. La casa è grande e il cortile è diviso da una grande rete: e dietro ad essa Bruno comincia a vedere degli uomini magri, grigi, con il pigiama a righe. Lui non capisce di che cosa si tratti e continua a vivere la sua vita di tutti i giorni, limitandosi ad osservare, di tanto in tanto, oltre la rete.

Passa un po’ di tempo, e Bruno si è ormai ambientato nella nuova casa, anche se si sente ancora molto solo… Così comincia a fare delle esplorazioni e un giorno si spinge molto oltre il cortile ed intravede una sagoma, si avvicina ed è un bambino: si chiama Shmuel ed è magro, grigio, triste e con il pigiama a righe. I due cominciano a parlare, all’inizio con sospetto, dato che sono molto diversi. Ma piano piano diventano sempre più amici e Bruno non sente più molto la mancanza della vita di Berlino.

Bruno continua a non capire perché il suo amico diventi sempre più magro e depresso. I due continuano a vedersi in segreto e Shmuel racconta a Bruno della vita nel campo. Bruno, colpito dal racconto, comincia a smettere di lamentarsi di tutte le piccole cose quotidiane, perché capisce che Shmuel sta molto peggio. I due amici sono inseparabili e, nonostante l’imminente trasloco di Bruno, rimangono insieme fino alla fine. Questo libro mi è piaciuto molto, non riuscivo a smettere di leggere. Veramente bello e duro insieme, è un libro che tutti dovrebbero leggere, perché ricorda che non bisogna dimenticare.

MAIA, 2023

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Dobbiamo aggiungere che questo libro e il film omonimo (diretto da Mark Herman nel 2008) hanno ricevuto delle importanti critiche da parte di studiosi della Shoah. Secondo questi osservatori, è inverosimile che Bruno, il bambino della famiglia nazista, possa essere totalmente all’oscuro delle politiche di segregazione, visto che la propaganda antisemita era pervasiva e cominciava fin dai libri delle scuole elementari. Inoltre, si sottolinea da più parti che nella sequenza finale il lettore/spettatore tende a identificarsi con la sorte di Bruno, provando empatia per lui e trascurando così la sorte delle persone che gli stanno intorno, la cui morte appare così scontata, naturale, inevitabile.

Se vuoi approfondire:

Claudio Gaetani, Le immagini che non ti ho detto. Un approccio critico-didattico alla comunicazione visuale, Novecento.org, n. 8, agosto 2017.

Benjamin Blech, The Boy in the Striped Pajamas, sul sito ebraico Aish.com.

Manohla Dargis, Horror Through a Child’s Eyes, in The New York Times, 7 novembre 2008.

Altri articoli di critica (in lingua inglese) pubblicati in riviste di storia specializzate:

Michael Gray, The Boy in the Striped Pyjamas: A Blessing or Curse for Holocaust Education?, in Holocaust Studies, vol. 20, n. 3, 2014

Hannah Randall (2019), The Problem with ‘The Boy in the Striped Pyjamas’, sul sito Holocaust Centre North di Leeds (UK).

Stefanie Rauch, Understanding the Holocaust through Film: Audience Reception between Preconceptions and Media Effects, in History and Memory, Vol. 30, No. 1 (Spring/Summer 2018), pp. 151-188 (Indiana University Press).

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In copertina: i giovani attori Sam Peterson (Shmuel) e Cameron Duncan (Bruno) durante una rappresentazione di “The Boy in the Striped Pyjamas” al teatro The Lowry di Manchester (Inghilterra), 2015. Foto di Richard Gibbons (Flickr), licenza: CC BY-NC-SA 2.0.

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