La cura in Antartide

Questa volta l’avventura scritta da un gruppo di studentesse e studenti della classe 2E (IC Leonardo da Vinci, Reggio Emilia, a.s. 2021/2022) si svolge all’altro capo del mondo, in Antartide. Nel gioco di finzione letteraria, le implicazioni ecologiche (il riscaldamento globale) e quelle sanitarie (la pandemia) sono al centro del raconto, così come lo sono nella realtà. Buona lettura!

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Mi chiamo Valentina e vengo da Venezia, un giorno mi chiamarono degli studiosi professionisti per chiedermi se volessi andare con altri tre scienziati da tutto il mondo in Antartide, perché avevano riscontrato una malattia molto contagiosa nei pesci. Io accettai immediatamente: era un’opportunità che non potevo farmi scappare.

Alla partenza incontrai gli altri tre scienziati con cui avrei compiuto il mio viaggio: Patrick veniva da New York, in America, Nadir era un vecchio signore che veniva da un paese dell’Arabia Saudita chiamato Taymà, Yi Jin veniva dalla Cina, precisamente da Shanghai. Erano tutti abbastanza amichevoli e ci trovammo subito in sintonia tra noi. Decidemmo di montare le nostre tende vicino al mare, e dopo esserci sistemati ci mettemmo subito al lavoro.

La flora era molto scarsa e c’erano solo le poche piante che resistevano al freddo, la neve era alta e dura e si faceva fatica a camminare, e poi bisognava fare attenzione al ghiaccio vicino al mare. Dopo un po’, Yi Jin trovò qualcosa di strano nell’acqua e venne a chiamarci, così Nadir ci disse che si trattava di un parassita. Decidemmo di allontanarci dalla riva per scoprire fino a dove si espandeva. Però Nadir e Yi Jin videro che stava per arrivare una tempesta e così ci rifugiammo in laboratorio a studiare il campione.

La mattina dopo ci svegliammo con il rumore delle onde, ci affacciamo e ci trovammo a galleggiare in mezzo al mare: non ci eravamo accampati sulla riva, ma su una lastra di ghiaccio che si era staccata durante la notte. Mi spaventai molto e iniziai a urlare, ma Yi Jin mi rassicurò, dicendo che sarebbe andato tutto bene. Il ghiaccio che si stava sciogliendo non era l’unico problema, perché in lontananza, tra le onde, c’era un’orca. Patrick, che era il più fifone, voleva chiamare i soccorsi ma io, che volevo così tanto trovare la cura, per colpa di uno scatto d’ira gettai la radio in mare. Patrick si fece venire un attacco di panico e per sbaglio cadde in acqua, e appena entrato in acqua cercò di gridare, ma arrivò l’orca e lo prese, affogandolo. Nadir mi venne incontro con fare arrabbiato e mi disse con un vocione: “Ecco, per colpa tua e della tua cura abbiamo perso un uomo. Dimmi, è più importante la cura o la vita di una persona?”. Non feci in tempo ad aprire bocca che Yi Jin mi protesse: “In fondo non era così importante, non ci stava aiutando molto”.

Dopo qualche ora, Yi Jin avvistò in mare la radio che trasmetteva un segnale e gridò: “Guardate ragazzi, la radio trasmette ancora un segnale!”. Nadir intervenne: “Possiamo prenderla con la canna da pesca”. Io annuii silenziosamente, mi vergognavo troppo per dire qualcosa, pensavo ancora alla domanda che mi aveva fatto Nadir. Il problema era che non sapevo dare una risposta. Attraverso la radio riuscimmo a contattare dei militari che sarebbero venuti a prenderci il  giorno successivo, ma rischiava di essere troppo tardi perché il ghiaccio si stava sciogliendo troppo velocemente, non sapevamo se saremmo sopravvissuti. Dopo aver chiamato i soccorsi, non facemmo in tempo a tirare un sospiro di sollievo che l’orca, la quale si aggirava intorno al laboratorio galleggiante, si buttò sul poco ghiaccio che ci era rimasto distruggendolo in gran parte. Così Yi Jin corse nella tenda e prese un pezzo di vetro da utilizzare come arma. Si lanciò sul dorso dell’orca, che iniziò ad agitarsi furiosamente, ma Yi Jin riuscì a piantare l’arma improvvisata in un occhio dell’orca, ferendola a morte. Infatti dopo un ultimo sobbalzo, l’orca morì.

Ormai era rimasto pochissimo ghiaccio intorno al laboratorio e il poco che c’era era sottilissimo, troppo sottile per camminarci sopra. Ci rifugiammo in laboratorio e ci addormentammo chiedendoci se la mattina successiva saremmo rimasti ancora in vita.

La notte sembrò non finire mai, ma all’alba arrivarono giusto in tempo i soccorsi: era rimasta solo una parte del laboratorio. Ero molto triste, perché non avevo completato la missione che mi avevano assegnato. Il primo a salire sull’elicottero che era venuto a salvarci fu Nadir, che dopo poco si voltò verso di me per aiutarmi a salire. Aveva un enorme sorriso in volto, perché gli scienziati sull’elicottero gli avevano detto che era stato un falso allarme e che, almeno per ora, il parassita non era troppo pericoloso, anche se non si sapeva come si sarebbe potuta evolvere la questione.

In elicottero, dopo aver tirato un sospiro di sollievo, pensai alla risposta alla domanda di Nadir e decisi che era meglio trovare la cura perché era più importante, avrebbe potuto salvare l’umanità. Ma se ci ripenso ora, credo che non avrei fatto la stessa scelta, avrei preferito salvare Patrick, perché l’immagine del mio amico che affoga mi perseguita ogni notte. Ma non siamo in un libro di fantascienza e non si può tornare indietro nel tempo… forse. 

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ALICE, ALESSANDRO QI JUE MING, RICCARDO, ZHI JIE, 2021

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In copertina: Il “Camp Academia” sull’isola Livingston, nelle Isole Shetland Meridionali, Antartide, 2004. Foto di Lyubomir Ivanov, tratta da Wikimedia Commons.

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