Stories Of Sharks (S.O.S. avventura!)

Il laboratorio di scrittura a più mani “SOS avventura!” è stato uno dei momenti finali del modulo di italiano sul genere avventura, svolto con le classi 2D e 2E della Leonardo da Vinci di Reggio Emilia (a.s. 2018/2019). Ecco i nostri racconti, aspettiamo i vostri commenti.

 

Tutto è iniziato in una calda giornata di sole alle Hawaii, dove ero in vacanza con la mia famiglia, quando, per rinfrescarci, abbiamo deciso di andare a fare un bagno. Il mare era azzurro come il cielo e calmo, ma decisamente mal frequentato: uno squalo aveva appena attaccato mio marito Stefano!

Ad un primo sguardo, la macchia rossa di sangue che galleggiava in mare ci ha fatto pensare al peggio ma, per fortuna, Stefano riuscì a sottrarsi alla furia dello squalo e uscì dal mare correndo terrorizzato con una enorme ferita al braccio destro. Con l’aiuto dei miei figli lo portammo immediatamente al pronto soccorso, dove venne operato d’urgenza: tutto andò bene e ne uscì solo con numerosi punti di sutura.

Mentre stavamo denunciando l’incidente in ospedale, il medico ci disse che nell’ultimo mese c’erano stati numerosi attacchi lungo le coste della città. Questo era davvero straordinario, perché da tantissimo tempo lì non era stato avvistato uno squalo. La cosa ci incuriosì e decidemmo di approfondire ed indagare su quanto era avvenuto.

Come primo passo, volevamo vedere se Stefano era stato attaccato da un branco di squali o da uno squalo singolo, così decidemmo di noleggiare una barca per qualche giorno, per poterne osservare i movimenti in mare. È bastata una mezza giornata per capire che in zona stava girando un unico squalo. Il custode della spiaggia ci disse che era strano vedere uno squalo da solo poiché solitamente si muovono in gruppo. Spinti dalla curiosità, il giorno seguente tornammo in mare e, dopo poco, incontrammo lo squalo, che si dimostrò ancora aggressivo nei nostri confronti. Stava attaccando la barca quando si intrappolò da solo nella piccola rete che sporgeva dalla barca, così tornammo subito a riva.

Sulla spiaggia c’erano tante persone incuriosite, come noi, dallo squalo. Quando la gente cominciò ad andare via, ci avvicinammo all’animale che ormai non si muoveva più. Alessandro, il nostro figlio maggiore, intravide un microchip sulla fronte dell’animale e, analizzandolo, scoprimmo che c’era il logo di un certo The Shark, personaggio conosciuto alla polizia, già condannato più volte per avere hackerato dei computer.

Ma cosa centravano gli squali? Perché fare del male ai bagnanti? Dovevamo trovare il covo di The Shark ma non avevamo informazioni.

La mattina seguente, presi dalla necessità di scoprire dov’era il covo di The Shark, ritornammo a fare un giro in barca. Improvvisamente arrivò uno squalo: in quel momento tutti eravamo a riposare sulla barca mentre lo squalo pensava a distruggere il motore. Stefano vide lo squalo, però era già troppo tardi. Dovemmo lasciare la barca ma il gommone di salvataggio era solo per tre. Stefano decise di sacrificarsi e si buttò in mare per raggiungere la costa. Tutti noi eravamo terrorizzati all’idea che lo squalo potesse raggiungerlo, ma Stefano era stato di gran lunga più veloce del suo nemico e, ormai, era quasi arrivato sulla spiaggia, era salvo! Ora toccava a noi salire sul gommone di salvataggio e raggiungere la riva.

Quella sera a casa, facendo una ricerca su internet, avevamo trovato tante foto e, tra queste, ci avevano colpito quelle di un personaggio che postava “stories” e foto su Instagram sempre con una maschera da squalo, spesso ambientate in una bellissima casa. Forse avevamo trovato la persona giusta!

Decidemmo di fare una passeggiata lungo la costa, nella zona dove c’erano state le aggressioni: non c’erano case di lusso ma solo negozietti, capanni semi vuoti e piccole fabbriche abbandonate. Tra tutte queste costruzioni, una attirò la nostra attenzione: a differenza delle altre sembrava ristrutturata da poco. Entrammo e con grande sorpresa trovammo un computer acceso. Una scritta sullo schermo ci avvertiva che per entrare avremmo dovuto superare tre lunghe prove.

Nella prima prova dovevamo indovinare il vero nome di The Shark. Era un enigma da risolvere e mio figlio maggiore ci riuscì ricordandosi di un suo amico che si era trasferito alle Hawaii qualche anno prima e che gli aveva raccontato alcune delle leggende locali: una di queste leggende era proprio la chiave per risolvere l’enigma.

Nella seconda prova, invece, dovevamo attraversare la stanza, in cui c’erano dei sensori laser molto sensibili che, se venivano sfiorati, facevano suonare l’allarme facendoci fallire la prova. Per fortuna, mio figlio minore Gianni aveva fatto karate per molti anni; riuscì a distruggere i sensori laser e attraversammo la stanza molto facilmente.

La terza prova, la più difficile, consisteva nel lottare contro The Shark e scoprire la verità su quel ragazzo di cui ignoravamo la vera identità. Gianni, quello con più esperienza, andò per primo. The Shark si era nascosto dietro una colonna: Gianni lo trovò e gli tolse la maschera ma poi, impaurito, venne da me e non riuscì a guardarlo bene in faccia. Allora decisi di fermarmi per escogitare un piano. Nel frattempo, The Shark mise la sua maschera di riserva, ma si accorse di averla bucata in un occhio e questo non gli permetteva di combattere nel migliore dei modi.

Il mio piano consisteva nell’accerchiarlo, distrarlo e farlo svenire con una mossa di karate per poi scoprire la sua vera identità. Il piano fu molto più difficile del previsto ma alla fine riuscimmo a farlo svenire. Appena tolta la maschera, scoprimmo che era un vecchio compagno di classe di Alle e quindi lo portammo lontano da lì e lo lasciammo libero, anche perché sapevamo che aveva dei figli da mantenere.

Guardando alcuni ritagli di giornale e pagine aperte sullo smartphone di The Shark, capimmo che agiva così perché era infuriato per il grande numero di persone che tutti i giorni riempiva la spiaggia, sporcando e inquinando con puzzolenti motoscafi. Inoltre lui era stato un grande campione di surf, ma ormai c’era così tanta gente a fare il bagno ad ogni ora che era impossibile allenarsi.

L’ultima parte del piano era impedire ai computer di comunicare attraverso i microchip con gli squali, per renderli inoffensivi. Andammo quindi nella stanza con i computer, ma entrare nei programmi scritti da The Shark era così difficile che decidemmo di distruggerli.

Prima che The Shark potesse tornare alla sua base, scappammo dalla fabbrica abbandonata e tornammo nella nostra casa a New York.

ALESSANDRO, FAVOUR, BIANCA, 2019

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