Al campo del Valorugby. Interviste ai protagonisti / 3

Con questo articolo termina il lungo racconto della nostra mattinata al campo del Valorugby. Insieme alla squadra di casa c’era anche Andrea Di Giandomenico, che è stato un giocatore di rugby a L’Aquila e a Reggio Emilia, e attualmente è l’allenatore della nazionale italiana femminile. Premiato nel 2019 come miglior allenatore di una squadra femminile dal sito inglese Scrumqueens, Andrea ha portato la squadra ai più alti livelli mai raggiunti nella classifica mondiale: sotto la sua guida le Azzurre hanno raggiunto uno storico secondo posto al Women’s Six Nations 2019.

Alcune alunne hanno dialogato con lui:

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Come mai hai scelto di allenare le ragazze?

Non è stata una scelta mia. Lavoravo all’interno della Federazione Italiana Rugby e mi è stato proposto di assumere l’incarico di allenare la squadra italiana femminile. La cosa mi ha subito interessato tantissimo, io ero da poco diventato un allenatore. Da un lato avevo l’opportunità di gestire in prima persona una squadra; dall’altro ho pensato alla grande opportunità di lavorare con un gruppo di ragazze che sono molto motivate “internamente”. Cosa vuol dire, secondo voi?

Vuol dire avere autostima, sentirsi pronti per una partita, avere fiducia in se stessi.

Sì, ma se lo vogliamo generalizzare, le ragazze hanno una fortissima motivazione “interna”. Spesso è un contesto che ti motiva: “abbiamo una partita importante”, “faccio parte della nazionale”, sono un po’ i pensieri dei maschietti, che si sentono motivati da un contesto esterno. Invece nelle ragazze è molto forte questa motivazione interna. È tutta quella forza che si trova per raggiungere un proprio obiettivo. Ho pensato che sarebbe stata una esperienza molto positiva per me: potevo trasferire la mia idea di rugby e di allenamento – il coaching – con un gruppo di ragazze che avrebbero condiviso quest’idea e lavorato duramente per portarla avanti. È quello che è successo, e questo è il tredicesimo anno che alleno la nazionale femminile.

Enrico

La squadra è cambiata o sono sempre le stesse ragazze?

Non sono sempre le stesse, sono cambiate negli anni. Alcune ancora resistono, ancora mi sopportano, altre per diversi motivi (perché hanno avuto dei bambini, per scelte di lavoro) hanno lasciato. Anche l’età interviene per mettere fine a delle carriere. C’è stato un rinnovamento, ma sempre seguendo gli stessi principi metodologici.

Quando durante la partita suggerisci cosa fare, che lingua parli per dare spiegazioni?

Parliamo in italiano, le giocatrici sono tutte di madrelingua italiana. Ci sono molti meno stranieri nel mondo del rugby femminile, rispetto a quello maschile. Però c’è un’altra cosa importante da dire. Se mi parli di allenamento, è corretto che sia l’allenatore a dare indicazioni. Ma l’obiettivo è portare le ragazze, nel momento in cui giocano, ad essere completamente responsabili della loro prestazione. L’obiettivo di un allenatore è intervenire il meno possibile, durante una partita. Creare una consapevolezza nelle giocatrici affinché possano essere direttamente loro a gestire i momenti cruciali delle partite.

È orgoglioso della sua squadra?

Tantissimo. Sono orgoglioso per tutto quello che riescono a fare. Considerate che nel panorama femminile la professionalizzazione è molto limitata, le ragazze che vedete in campo sono studentesse, lavoratrici, mamme. E qui torniamo al discorso di prima, loro riescono a organizzare la propria vita in funzione di quello che piace loro fare, e non è sempre facile. Pensate alle ferie: invece di andare in vacanza con le amiche, vengono a giocare, usano le loro ferie così. Provando piacere in quello che fanno, non lo considerano un sacrificio. E quindi non si può non essere orgogliosi delle ragazze.

Perché hai scelto di allenare proprio lo sport del rugby?

Io vivo qui da vent’anni e sono originario dell’Aquila [in Abruzzo], che è una città a forte tradizione rugbistica. Ho praticato il rugby dall’età di 6/7 anni, è una cosa che ha accompagnato da sempre la mia vita, oltre allo studio. Nel 2000 sono venuto a giocare qui a Reggio, poi nel 2007 la società del Reggio Rugby mi ha dato una grande opportunità: continuare allenando. E allora ho cominciato a seguire i corsi per allenatori, perché lo studio è importante anche per fare gli allenatori, non è solo l’esperienza che si ha che si può trasferire per imparare a giocare a rugby. Quando bisogna allenare bisogna essere padroni di una metodologia, quindi occorre un po’ di studio. Sono stato fortunato, ho trovato queste opportunità prima a Reggio Emilia poi all’interno della federazione, e riesco a fare di una passione anche un mestiere.

Durante le partite o gli allenamenti, capita spesso di sbagliare a lanciare la palla oppure dopo un po’ viene automatico?

L’errore fa parte del percorso di formazione, anche per voi. Quando ci sono dei compiti, non sempre sono perfetti, vero? I vostri professori come fanno ad aiutarvi?

Ci correggono.

Esattamente. Quindi la correzione dell’errore è il fulcro attorno a cui ruota tutta l’attività di allenamento o di formazione. Passare un pallone è qualcosa che se ci mettiamo a fare da fermi, tutti siamo in grado di fare. Ovviamente, più lo ripetiamo più riusciamo a farlo bene. Però poi nei contesti di gara c’è la pressione. E la pressione è data da una diminuzione dello spazio e del tempo a disposizione. Quindi la sfida, per i giocatori, è replicare dei gesti e dei comportamenti adeguati alle situazioni di gioco in meno tempo possibile e con meno spazio possibile. L’errore c’è e ci sarà sempre, anche nelle migliori squadre del mondo. Il problema non è sbagliare, ma la capacità di reagire all’errore, quello fa i grandi giocatori e giocatrici. Anche nella vita, l’importante è la capacità di reazione all’errore invece di preoccuparsi e dannarsi nel momento in cui c’è un errore.

In cosa il rugby è diverso dagli altri sport? Qual è, secondo te, la sua caratteristica migliore?

Se parlate con gli appassionati di qualsiasi sport vi diranno che il loro sport è migliore perché forma il carattere. Io vi dico che il rugby non forma il carattere, ma lo porta a galla. Ti fa vedere veramente qual è il tuo carattere. E qui mi ricollego al concetto di pressione. Le persone, sotto pressione, tendono a fare cose stupide e viene fuori la loro vera natura. Il rugby, come tutti gli sport di squadra, è aggregante da quel punto di vista. C’è una piccola differenza, nell’idea del sostegno. Nel calcio o nel basket il sostegno è “centrifugo”, se voglio aiutare un compagno vado in uno spazio libero lontano in modo che lui possa darmi il pallone e tolgo la pressione dal mio compagno. Nel rugby, oltre a questo, c’è un altro tipo di sostegno che è “centripeto”, c’è la necessità di portare sostegno a chi ha il pallone, avvicinandosi.

Quindi devono allenarsi spesso…

Sicuramente, ci sono tante abilità fisiche messe in campo.

E ci vuole anche la passione, e poi dopo un minuto di corsa non gli deve far male la milza, come succede sempre a me.

Questo si ottiene con l’allenamento. Però la cosa che dovete pensare è che per giocare a rugby bisogna essere intelligenti. Perché nonostante voi lo vediate come uno sport di combattimento, con un affrontamento fisico, però regolato all’interno di norme ben precise e rispettate da tutti in campo, c’è la capacità di risolvere le cose attraverso la mente. Si allena anche la mente, c’è una sfera cognitiva importante all’interno del rugby che i giocatori devono saper sfruttare, cioè prendere le decisioni giuste al momento giusto. Questa è la grande sfida dei giocatori e delle giocatrici, e questa è la parte che mi appassiona di più.

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Nelle altre puntate le interviste a: Angelo Leaupepe e Dan Newton; Diego Antl e Teo Castiglioni.

Le foto e le riprese audio/video sono state realizzate il 4 novembre 2021 al campo del Valorugby in via Assalini a Reggio Emilia, e sono a cura di: Ashar, Donia, Maya, Raien. Si ringraziano le docenti Anna Bondavalli, Paola Marcela Sanchez e Lorenza Nironi per il lavoro in classe di preparazione e traduzione delle intervsite in lingua inglese e spagnola. Si ringraziano gli altri docenti accompagnatori: Lucia Matera, Mattia Ferri e Marco Pastorelli.

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