Racconti persi tra le onde. Sulla superficie

Non mi restava nulla, se non il profumo dell’ebano nascosto tra le narici e posato sulle guance gelide. Ero arrivata al porto di Palermo da pochi giorni, faceva freddo. I palmi delle mie mani si erano seccati e non potevo scaldarmi con essi.  Una signora un po’ goffa passava ogni mattina a consegnare coperte di poliestere riciclato che teneva all’interno di grandi borsoni resistenti al tatto.  Eravamo più di cento giù al porto, compresi bambini e donne. 

Restai per due notti nascosta in un ripostiglio di un ristorante turistico, Le sette stelle, insieme ad altre tre donne e un neonato. Uscivamo ogni sera per cercare di raccattare più cibo possibile e pochi spiccioli per gli omogeneizzati. Se ci andava bene e passava la vecchietta di turno potevamo risparmiare qualche soldo per i giorni successivi, ma non capitava spesso.

Quando me ne andai non seppi più nulla di quelle tre donne, né se il bambino fosse cresciuto e sopravvissuto al freddo. Almeno lui aveva la possibilità di diventare qualcuno. La mia anima invece fu costretta a girovagare, incespicando frequentemente, tra le vie di Palermo e ad assaporare la vera essenza della solitudine. Ad ogni mio passo, ad ogni mio respiro, sentivo di non stare avvicinandomi a nessuno, ma di stare allontanandomi da me stessa. L’intonaco delle case facenti parte della periferia era il mio unico colore, e la paura che emanassi il mio ultimo respiro il mio unico pensiero.

Passarono i giorni e riuscii a trovare lavoro in un campo di pomodori lungo le coste pugliesi. Rimasi poco in quel luogo, ma riesco ancora a ricordare le casse verdi smeraldo e il caldo che con fare petulante mordeva la mia pelle. I pomodori rosso fuoco, i volti persi degli altri ragazzi probabilmente migranti, le mie guance scottanti e i nostri occhi spenti che pregavano di arrivare ai 50 euro mensili. 

Fu un lunedì pomeriggio che conobbi Atikah, una ragazza nigeriana più vecchia di me che stava per lasciare quella piantagione per trasferirsi in un minuscolo appartamento a Bologna.

– Ho conoscenze su al nord, e qualche vecchio amico che ci porterà a Bologna. Essendo in due passeranno almeno tre anni prima che ci caccino. Io pago l’affitto e tu risparmi. Cerca di fare colpo, magari troverai un uomo e riuscirai a sposarti – mi disse prima di partire. Non aveva speranza nella sua voce, ma voleva aggiungerne un po’ nella mia, riteneva fossi ancora giovane e che se lo Stato non ci aiutava, dovevamo farlo noi.

Atikah non si era persa tra le onde, si era persa tra le strade. Era riuscita ad arrivare fino a questo punto ma non aveva ancora trovato la sua ragione. Se io ero ancora persa tra le onde, mi sarei persa sicuramente nella strada? Ero destinata alla stessa sorte?

Pensavo fosse così all’inizio, ma quando Atikah mi lasciò sola capii che avrei dovuto interrompere la mia vita. Atikah lavorava solo di sera, non mi aveva mai detto dove e se venisse pagata in nero, ma meno domande facevi meglio era. Non dovevi intrometterti all’interno dei mondi altrui, e anche se avessi voluto non avrei potuto salvarla. Due persone perse, che siano tra le onde o tra le strade, non possono salvarsi, ma solo girare a vuoto.

Io però riuscii a salvarmi, Atikah no. Morì il 19 maggio del 1994 a causa di un incidente automobilistico avvenuto lungo la via davanti a casa nostra. Erano passati 6 mesi dal mio sbarco a Palermo e non mi sarei mai aspettata di arrivare fino a questo punto, ma non potevo andare avanti. Dovevo fermarmi.

Così iniziai a scrivere di racconti, di vite. Vite come quella di Atikah, come quella delle tre donne e del bambino nel ripostiglio. Vite perse tra le onde, che vi racconterò tra queste pagine.

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Questo racconto è il primo di una trilogia. Il secondo è stato pubblicato con il titolo “In balia delle onde“, il terzo si intitola “In profondità“.

In copertina: una foto tratta da un articolo di Angela Caporale pubblicato sul sito della rivista online Redattore Sociale nel 2018.

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